MotoGP: il totem dello show business
Le corse non sono un minuetto ma una lotta alla baionetta, pur sempre nell’ambito dello sport.
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Sul fattaccio del contatto fra Marquez e Rossi (meglio dire della “speronata” dell’asso spagnolo della Honda a danno del campione italiano della Yamaha) ha ragione il 15 volte iridato Giacomo Agostini: “Nel motociclismo è sempre stato così”. Nel senso che le corse non sono un minuetto ma una lotta alla baionetta, pur sempre nell’ambito dello sport.
Ciò non significa sottovalutare i rischi di certe situazioni bollenti e gli strascichi spesso incontrollabili e tanto meno legittimare ogni tipo di condotta di gara. I regolamenti ci sono, vanno fatti rispettare, non sono ad uso e consumo di situazioni e interessi particolari. Ma è solo una questione di regolamenti? No. E’ un fatto di cultura, cioè di essenza e di sostanza.
Qual è oggi l’essenza, la “sostanza”, la “cultura” del motociclismo-show business? La passione resta la molla di partenza e accende questo sport di tecnologia e rischio ma il “motore” che oggi fa girare tutta la baracca è il business. Come altri grandi sport ai vertici mondiali legati alle ferree leggi della economia globalizzata anche nel motociclismo a dominare sono gli interessi economici, in una scala di priorità capovolta rispetto al passato: alla base e al vertice c’è il business.
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Nei primi passi nel moto-racing delle mini-moto con pilotini-baby si punta ad emulare il Valentino Rossi per gloria e per… interesse. Il primo contratto di un pilotino con un Team diventa un fatto di stato. Le eccezioni confermano la regola. Più si sale più contano gli interessi economici (cosa rimarrebbe delle corse senza i piloti con la “valigia”?) in una torta dorata dove anche per accaparrarsi le briciole c’è gran battaglia.
A dominare è la diretta televisiva produttrice di audience e contatti tradotti in immagine, comunicazione, pubblicità, soldi. Un ammaliante famelico “moloch” cui tutto viene sacrificato, anche il rispetto, anche la dignità. Bisogna vincere. Chi vince ha ragione. Chi vince sta sotto i riflettori e produce interesse, interessi, soldi. Ma vincere non basta e non servono solo campioni. Serve vincere con clamore, servono campioni “star”, campioni carismatici”, campioni che bucano lo schermo e attraggono milioni di fan.
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Conta chi vince? Dipende chi vince. La conferenza stampa dei primi tre classificati nella MotoGP di Termas de Rio Hondo (Crutchlow su Honda, Zarco su Yamaha, Rins su Suzuki) è andata deserta perché i giornalisti erano tutti dietro a cercare Rossi, Marquez e … Uccio.
Ma così, al di là di qualche mugugno, sta bene anche a Crutchlow, Zarco e Rins e ai rispettivi “supporters” perché grazie ai Rossi e ai Marquez (non sempre esaltanti e tanto meno encomiabili) anche loro guadagnano una bella fetta di torta che, altrimenti, si ridurrebbe a un tozzo di pane. Sì – diciamo – è un fatto di cultura, cui tutti fanno sempre un frettoloso cenno di genuflessione per correre via in cerca d’altro, come si fa col nome del padre davanti al crocefisso. Ci si vergogna le prime volte, poi ci si abitua.
Anche i piloti, anche i campioni stanno al gioco, in un crescendo dove si rischia di perdere il controllo, specie quando non si capisce più quali sono le regole, chi le detta e chi comanda, in pista e fuori, e sulla scena giostrano i nani convinti – nella compiacenza di chi per codardia, per calcolo, per interesse si nasconde al primo cenno di terremoto – di essere diventati giganti. Così si scade nella rissa, anzi – con un francesismo – nella merda, riducendo il motociclismo a una bettola fumosa col vino scaduto. Ma alla gente, almeno a quella di buon gusto, piace il Chianti (anche il Sangiovese o il Lambrusco), non l’aceto.
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