Motociclismo, vale più quello odierno di Rossi-Dovi o quello di ieri di Ago-Paso?

Confronto tra il motociclismo di oggi e quello di ieri

Motociclismo, vale più quello odierno di Rossi-Dovi o quello di ieri di Ago-Paso?
Massimo Falcioni
Pubblicato il 13 dic 2017

Negli anni c’è stata una profonda evoluzione delle corse, modificando – non sempre in modo positivo – identità, funzioni, interessi. Anche il nostro sport è stato (ed è) condizionato dai cambiamenti culturali, sociali, economici, dalla rivoluzione delle tecnologie e delle comunicazioni a livello nazionale e internazionale. Si è passati da un motociclismo “continentale” incentrato sull’Europa a un motociclismo globale, senza più confini; da un motociclismo con al centro le grandi Case costruttrici (prima europee e italiane in particolare, poi giapponesi) a quello dei Team, al ruolo dominante degli sponsor e della comunicazione; ai centauri “svitati” e con le mani unte di grasso che per un po’ di gloria e per una misera diaria non esitavano a sfidare le mortali insidie dell’asfalto, ai fuoriclasse e ai “fenomeni” odierni, vere e proprie acclamate e superpagate star di un motociclismo con le luminarie da luna park. Cosa lega epoche tante diverse?

La passione della gente verso uno sport dalle mille sfaccettature con al centro un uomo – il corridore – sempre pronto a giocarsi la pelle – ieri come oggi – per la voglia della competizione, per conquistare al tempo un decimo di secondo, per tagliare per primo il traguardo, per raggiungere la gloria. Tante sono le differenze con il passato, a cominciare dal tema sicurezza, oggi assai migliorata. E il livello delle gare? Le gare – del motomondiale ma non solo quelle – erano comunque molto valide tecnicamente (perché le moto ufficiali delle Case erano dei veri e propri laboratori di tecnologia e ogni moto era molto diversa dall’altra: per frazionamento di cilindri, due o quattro tempi, marce diverse, telai diversi ecc.) e spettacolari anche quando mancava la lotta diretta per il primo posto compensata da una bagarre infuocata che coinvolgeva decine e decine di piloti dalla partenza al traguardo. Ma anche sotto questo profilo non era tutto rose e fiori: ci sono state stagioni in cui alcune categorie del motomondiale (125 e 250) erano campionati “monomarca” e altre erano dominate da un solo pilota con la solita moto della solita marca (500).

Il pubblico era diverso da quello odierno perché chi era davvero appassionato veniva fisicamente – per lo più in moto – in circuito alle corse; la televisione era (quasi) assente; poco interesse sui giornali non sportivi. Le discussioni, con relative polemiche, proseguivano nei bar (dove dominavano calcio, automobilismo, ciclismo, pugilato) e nei moto club, spesso con la presenza dei protagonisti, piloti, meccanici ecc. Tutto era meno costoso e meno appariscente, più di sostanza e meno di immagine, più “genuino” e meno professionale e la differenza principale da oggi era che il rapporto appassionato-pilota-corse era molto più diretto e – davvero – il protagonista era il pubblico attorno al circuito, non inteso come cornice ma come contenuto, cuore pulsante, volano che alimentava l’intera struttura delle corse.Il campione era considerato “fenomeno” ma non “alieno” meritandosi l’applauso non solo in quanto fuoriclasse ma capace di vivere da protagonista fra protagonisti, cosciente che senza pubblico sul circuito le corse e lui stesso non avrebbero avuto senso. Non solo. Non è vero che quel motociclismo non era popolare.

I 100 mila di Imola e di Monza (per non parlare dei 200 mila di Assen, Spa, Nurburgring, Salz, Brno e del milione del TT) erano il migliore mix di popolo, gente di ogni categoria sociale ma tutti con il vestito della festa, ma lì cominciava e lì finiva perché la massaia a casa non seguiva le corse in tv semplicemente perché la tv non trasmetteva le corse. In questo senso il motociclismo era seguito da un minor numero di gente e chi lo seguiva era necessariamente più vicino alle corse e più competente perché a contatto diretto con la realtà, spesso motociclista militante. Anche allora si seguiva e si tifava la Casa e il pilota del cuore ma prevaleva la passione per il motociclismo in quanto tale, fuori dalle esasperazioni personalistiche e nazionalistiche sempre più in voga, fuori da quel fanatismo degli ultras che spesso oggi prevale sulla passione.

La gente veniva alle corse perché amava le corse e continuava a seguire il motociclismo anche dopo l’uscita dalle scene del proprio beniamino. Chi amava Agostini applaudiva Agostini ma non odiava Pasolini e non lo fischiava. Nel giro d’onore, tutti i piloti, dal primo all’ultimo, venivano accomunati in un unico applauso di stima, affetto e riconoscenza. Nessun tifoso temeva per la propria incolumità e sicurezza, nessuno veniva minacciato, le provocazioni, la violenza, i vandalismi, restavano fuori dai circuiti. Ogni diatriba finiva in risate generali e a piadina e sangiovese equamente divisi. Il campione che (raramente) pompava la polemica veniva richiamato per primo dalla propria Case e se non si rimetteva tosto in riga (spesso con una sana autocritica) veniva appiedato. I piloti – dopo acerrime battaglie in pista – si abbracciavano sul podio e il vincitore chiamava a dividere il gradino più alto il secondo e il terzo classificati.

I media stimolavano il confronto ma raramente uscivano dalle righe della sana polemica evitando di gettare benzina sul fuoco esaltando tendenziosamente gossip e pettegolezzo con l’unico obiettivo dell’audience e delle copie da vendere per richiamare sponsor.Era un motociclismo diverso a misura di quella società diversa, più sobria e meno propenso all’effetto. Ciò detto, indietro non si torna, perché il motociclismo è parte della società che corre avanti e anche perché la logica del “si stava meglio quando si stava peggio” serve solo a ridestare i nostalgici chiusi nei rispettivi amarcord, richiamando gioventù irrimediabilmente perdute.

Ribadiamo quanto già scritto su Motoblog: “Ma la sostanza è una sola: tra sport puro, sport spettacolo e spettacolo puro il motociclismo non può che rimanere quale “sport-spettacolo” con in campo tutte le forze e le energie possibili, anzi allargando e non restringendo il campo d’azione, sportivi compresi. La logica del pochi e buoni era e resta un patetico bluff. Il motociclismo ha un futuro se, non perdendo la memoria del passato, guarda al futuro, se cambia restando se stesso, simbolo di uno sport complesso e rischioso che travalica lo sport diventando un emblema insostituibile della civiltà del motore”.

Ti potrebbe interessare: