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Moto Guzzi: 98 anni fa la prima vittoria, 70 anni fa il primo “mondiale” con il mitico Bruno Ruffo

il 4 settembre 1949, con il trionfo al GP delle Nazioni di Monza, Bruno Ruffo conquistava in sella alla Guzzi il primo titolo iridato della 250, diventando il primo italiano campione del Mondo della quarto di litro

Novantotto anni fa, precisamente il 25 settembre 1921, la Moto Guzzi, fondata il 15 marzo dello stesso anno da Carlo Guzzi e Giorgio Parodi, vinse con Gino Finzi la sua prima gara, alla Targa Florio. E’ l’inizio di un cammino radioso della Casa di Mandello: 36 anni di corse, 3.329 vittorie nelle 250, 350, 500, 14 campionati del Mondo vinti, 11 trionfi al Tourist Trophy, 102 campionati italiani, tanti primati mondiali, di cui alcuni rimasti imbattuti. Fino al discusso e discutibile forfait del 1957 la Moto Guzzi è stata la Casa motociclistica più importante e vincente a livello mondiale. Nel motociclismo, la Guzzi è stata per i colori italiani quel che nell’automobilismo è stata la Ferrari, con la (profonda) differenza che dal 1958 i bolidi con il simbolo dell’”aquila dalle ali spiegate” sono stati prima relegati in una polverosa soffitta poi rimessi a lucido nello splendido museo di Mandello mentre i bolidi del Cavallino rampante sono tutt’ora presenti in Formula 1 e tutt’ora protagonisti come dimostra anche l’ultimo trionfo di domenica scorso nel GP del Belgio a Spa-Francorchamps. Il vuoto lasciato dalla Guzzi con l’abbandono del 1957 ha privato il motociclismo della Casa italiana più significativa per sforzo e organizzazione sportiva e per le intuizioni e realizzazioni tecnologiche culminate con un capolavoro inarrivabile, la 500 GP 4 tempi 8 cilindri. Senza la Guzzi le corse sono state un’altra cosa. 

Esattamente il 4 settembre 1949, 70 anni fa, con il trionfo al GP delle Nazioni di Monza, Bruno Ruffo conquistava in sella alla Guzzi il primo titolo iridato della 250, diventando così il primo italiano campione del Mondo della quarto di litro. Volavano già alte, anche prima della parentesi bellica, le “aquile” di Mandello nei cieli delle grandi corse internazionali, portate in pista da straordinari centauri quali Stanley Woods, Omobono Tenni, ecc. Ma, appunto nel 1949, è stato Bruno Ruffo a conquistare per la grande Casa lariana la prima stella iridata (classe 250) nel firmamento del campionato del Mondo. Ruffo coglierà l’iride altre due volte: nel 1950 con la Mondial 125 (in uno squadrone con Ubbiali, Pagani, Leoni) e l’anno successivo, di nuovo con la Guzzi 250. E’ stato un grande pilota e uomo di grande umanità il veronese Bruno Ruffo (nato a Colognola ai Colli il 9 dicembre 1920 e scomparso il 10 febbraio 2007), con i suoi tre titoli mondiali, (il quarto perso per “guigne”), i suoi caschi tricolori, i suoi 61 record mondiali di velocità, le sue 57 vittorie assolute. Ruffo fu costretto anzitempo a dare l’addio al motociclismo nel 1953, a soli 33 anni, dopo un grave incidente in prova, tradito dalla nebbia del TT all’isola di Man. Ruffo fa parte della élite di grandi piloti che hanno fatto rinascere il motociclismo del dopoguerra, tassello importante e volano della ricostruzione di un Paese distrutto materialmente e moralmente. E’ anche con l’emulazione di Bruno Ruffo, Dario Ambrosini, Gianni Leoni, Nello Pagani, Umberto Masetti della fine degli anni ‘40, che tanti italiani si sono rimboccati le maniche, spinti dall’impegno, dal sacrificio, dal coraggio, dall’audacia dei loro campioni beniamini, rappresentanti di una rinascita possibile, capaci di dimostrare con i fatti che i sogni per una Italia nuova e vincente erano possibili.

Ecco, Bruno Ruffo, pilota che per primo vince il titolo di campione del mondo della 250, la classe più “bella”, questo soprattutto rappresenta: un italiano che si è fatto da solo, che da ragazzino ruba una prima moto dall’officina paterna per le prime scorrerie, quando a 17 anni, fatica su fatica e lira su lira, con una vecchia Miller 250 debutta a Montagnana, e poi costretto all’attesa per la lunga parentesi bellica, l’Armir, il fronte russo. Il 14 ottobre 1945 il ritorno vincente in pista a Mantova sul circuito del Te, poi si ripete a Pesaro con quella “Albatros” privata che però costava come tre appartamenti e a fine anno porta a casa il titolo tricolore della seconda categoria. Quindi, dopo un 1946 e un 1947 da privato, l’exploit trionfale al GP delle Nazioni di Monza (circuito di Faenza) nel 1948, primo davanti alle due Benelli Casa e al plotone delle Guzzi ufficiali. Quello fu il lasciapassare per l’ingresso a Mandello dal portone principale in qualità di pilota ufficiale della Casa motociclistica più importante e più forte dell’epoca. E il pilota veronese ricambiò con grandi corse, grandi vittorie, grande attaccamento al vessillo dell’aquila. Ruffo iniziò e chiuse la carriera in moto con la Moto Guzzi (la parentesi iridata del 1950 con la Mondial fu causata dall’assenza momentanea della Casa del Lario nella 250), una dimostrazione di “noblesse oblige”, di un pilota che prima di essere un campione in pista, era un gentleman ante litteram, rispettato e ben voluto da tutti, avversari compresi. Un fuoriclasse di raffinata sensibilità tecnica, di grande affabilità (tre cadute in tutta la carriera), di forte temperamento agonistico, di lucida capacità tattica, freddo calcolatore per passare primo sotto la bandiera a scacchi, ma con la baionetta in canna, capace di gettare il cuore sull’asfalto per limare un decimo di secondo al cronometro. Ruffo è stato il più grande stilista della 250 di tutti i tempi, insieme a Tarquinio Provini e a Max Biaggi. Ad unire con un filo unico l’uomo e il pilota, era la “classe”: una qualità naturale coltivata nell’umiltà dell’impegno quotidiano e del rispetto degli altri, oltre che di se stesso. “Quando do una stretta di mano – diceva – non faccio marcia indietro”. E quando correva per una Casa come la Guzzi, ne rispettava gli ordini di scuderia, senza recriminazioni. Anche quando ciò comportava amarezza per dover chiudere il gas e dare strada e vittoria a un compagno di squadra. E’ così che perse corse importanti come il Tourist Trophy del 1952 a favore dell’inglese Andersson. Ma è anche così che si entra nella storia. Si deve alla fatica del figlio Renzo, al suo stupendo libro “Cuore e asfalto” (Bloom Editore) se Bruno Ruffo appare per quello che è stato: un mito, una delle stelle del motociclismo mondiale, un costruttore del motociclismo amato dagli aficionados di ogni accento e bandiera, un campione che ha onorato l’Italia, un uomo capace di stare in mezzo agli altri, cosciente, con l’espletamento della sua passione sportiva, di avere fatto “solo” il proprio dovere. Grazie Bruno.

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