Home Dakar, la tragedia N° 64 alimenta il solito sciacallaggio contro le corse

Dakar, la tragedia N° 64 alimenta il solito sciacallaggio contro le corse

La tragedia alla Dakar stavolta porta il nome di Paulo Goncalves ma è segnata dal N° 64, che non è il numero di gara dello sfortunato pilota portoghese ma quello dei corridori e dei vari addetti morti in questo Rally in 41 anni

La tragedia alla Dakar stavolta porta il nome di Paulo Goncalves ma è segnata dal N° 64, che non è il numero di gara dello sfortunato pilota portoghese ma quello dei corridori e dei vari addetti morti in questa spettacolare quanto tragica specialità motoristica in 41 anni. Il quarantenne lusitano, già campione del mondo di rally fuoristrada del 2013, era tutt’altro che un principiante, essendo alla sua 13ma presenza alla Dakar, la massacrante kermesse motoristica nata nel 1979 da una fantasia di Thierry Sabine con il nome di Parigi-Dakar e che quest’anno si svolge in Arabia Saudita su un percorso di 9mila Km con la partecipazione di 72 piloti di auto, 140 di moto, 45 camion e 20 quad. Non torniamo sulla dinamica della caduta, sui soccorsi e su tutto il resto, oramai noti. Così come non torniamo sull’identità sempre discussa e sugli interrogativi di un evento motoristico internazionale, un mix di passione per i motori, per l’avventura e il rischio, volano di un grande show-business di portata mondiale.

La tragedia, quindi, torna alla Dakar a cinque anni dall’ultimo incidente mortale allungando la lista dei lutti con poco meno di una settantina di morti complessivamente fra piloti e giornalisti, tecnici, assistenti di gara, spettatori. Come già avvenuto dopo ogni incidente mortale nelle edizioni precedenti dello stesso Rally-show, pur se in altri Paesi e continenti, l’occasione è buona non tanto per una riflessione sempre attuale sulla sicurezza di questo tipo di gare ma per la solita opera di sciacallaggio sulle corse motoristiche in quanto tali. Discussioni infinite che da sempre alimentano il Motorsport, dove lo spettacolo deve misurarsi con il rischio e dove la Signora in nero è sempre presente. Si corre alla Dakar, così come nel pur diverso TT inglese dell’Isola di Man, anche se l’elenco dei morti – come detto – è lungo e il libro nero resta aperto ma, per esempio, non si è più corso in Italia sui circuiti cittadini che in 25 anni avevano provocato in totale due incidenti mortali. All’epoca della tragedia di Monza del maggio 1973 (con la morte di Pasolini e Saarinen) fu preso in esame un periodo di cinque anni di corse sui tracciati cittadini, settanta ore di corse per 8500 Km con la partecipazione di 1700 piloti: un incidente mortale! Tant’è.

Fatto sta che nel Motorsport anche oggi si corre, si rischia, si muore. Nessuna meraviglia, dunque, se l’ultimo incidente alla Dakar che è costato la vita a Paulo Goncalves, ha riportato le corse, specificatamente quelle di moto, sulle prime pagine dei media, scatenando le trite e ritrite polemiche sulle corse e sulla loro pericolosità. Nelle corse il rischio non è eliminabile e anzi è una componente di questi sport: è uno degli ingredienti del suo fascino. Chi lo nega, mente sapendo di mentire. Si punta verso la ricerca della massima sicurezza, addirittura con l’obiettivo dell’annullamento del pericolo. Che, però, resta un’utopia. Eliminare completamente i pericoli delle corse è impossibile perché c’è l’imponderabile legato all’errore umano, alla rottura meccanica, al fato sfavorevole. Con altrettanta fermezza va ribadito che le corse non sono una corrida, i piloti non sono gladiatori, i mezzi non sono strumenti offensivi. Ma occorre equilibrio: la ricerca della massima sicurezza possibile non può portare allo snaturamento delle competizioni motoristiche, che erano, sono e resteranno “rischiose”. Chiudiamo con quanto già scritto dopo la morte del Sic: va messa al bando ogni forma di ipocrisia e di strumentalizzazione. Perché, come ammoniva Enzo Ferrari: “O si smette di piangere o si smette di correre”. Agli “avvoltoi” di turno, un solo invito: rispettare la scelta di vita di ognuno, anche quella che apparentemente appare la più folle. Come quella di un quarantenne eterno ragazzo che insegue i suoi sogni su una moto da corsa.

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