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Motomondiale, contano solo i soldi?

Analisi sulla presunta crisi del motociclismo moderno che ruota attorno a pochissimi eletti. Perché?

Oggi si criticano molti aspetti delle corse di moto, in particolare del Motomondiale, dominato dalla logica dello show-business. Altre volte abbiamo analizzato questo aspetto convinti che pur con molte (troppe) esagerazioni presenti, indietro non si torna perché fuori dallo sport-spettacolo il grande motociclismo – sport complesso che richiede ingenti investimenti per moto, circuiti, piloti ecc. – non esisterebbe più. Chi scrive queste note segue le corse da ben oltre mezzo secolo e al di là della legittima nostalgia dei tempi che furono e di alcuni aspetti di grande fascino non è vero che il motociclismo de: “I giorni del coraggio” era più “interessante” e più seguito di oggi.

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Semplificando, diciamo che allora c’era uno spettacolo “diverso” basato sugli stessi ingredienti di oggi ma con priorità diverse: ad esempio più “tecniche”, più legate alla bandiera del marchio di una Casa, e anche – perché non dirlo – al rischio dei piloti. Resta però il concetto di fondo: le corse sono uno show. L’evento (la gara, il campionato ecc.) regge se offre spettacolo. Dove c’è lo spettacolo la gente va (in circuito o davanti la tv), i media si interessano e quando il tam-tam coinvolge milioni di persone ecco che arrivano gli Sponsor, cioè chi sborsa i soldi per tenere in piedi tutto l’ambaradan. E’ evidente che così lo Sponsor, sempre più largo di maniche nello sborsare soldi e al contempo sempre più invadente, determina e condiziona l’evento stesso, di fatto diventando il “padrone” del giocattolo.

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Ai tempi delle grandi Case italiane, ben prima della seconda guerra mondiale e su su fino agli anni ’60-70, Guzzi, Gilera, Bianchi, Benelli, Mondial, Morini, Ducati, Aermacchi ecc. pagavano di tasca propria persino la… benzina da mettere nei serbatoi dei loro bolidi. Ogni Casa pagava tutto da sola con il supporto di qualche Azienda “tecnica” e sostanzialmente il budget per correre veniva dal bilancio della fabbrica, per lo più spolpandola. Una eccezione era data dalla MV Agusta, il cui reparto corse poggiava sul portafoglio del Conte Domenico, a sua volta rimpinguato dai proventi derivanti non certo dalle moto di serie vendute sul mercato ma dai ben più remunerativi elicotteri e altri mezzi dell’aeronautica e della difesa. Con questa logica, quando poi il mercato di moto si restrinse e quando arrivò l’invasione “gialla” come potevano resistere e rimanere nel Motomondiale le Case italiane?

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L’ultimo esempio dell’epoca gloriosa della grandi Case italiane viene dalla Benelli. La Casa pesarese, da sempre impegnata nelle competizioni, vinse l’ultimo mondiale nel 1969 con la 250 4 cilindri 4 tempi affidata a Kel Carruthers (quell’anno insieme a Renzo Pasolini ma anche a Phil Read, Gilberto Parlotti e pure a Walter Villa e a Eugenio Lazzarini) portata per la prima volta in pista da Silvio Grassetti nel 1962 e poi da Tarquinio Provini. Praticamente dieci anni di duro lavoro, di sviluppo continuo e anche di motori (e moto) completamente ridisegnati e ricostruiti. Non solo: dalla 250 si passò alla 350 e alla 500 con Pasolini, Grassetti, Hailwood, Saarinen. Moto pregevoli sotto ogni profilo che però richiesero montagne di soldi prosciugando le casse della grande Marca pesarese, uno dei motivi (se non il principale) che la mandarono poi a carte quarantotto.

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Idem, più o meno, per le altre Case italiane impegnate in una battaglia impari contro i colossi dell’industria del Sol Levante. La stessa Ferrari, che fa da sempre delle corse la propria ragion d’essere, arrivò più volte al limite e senza l’apporto degli Sponsor avrebbe già chiuso con le corse. Non è oggi la stessa cosa per le altre Case italiane (Ducati in primis) ma anche per le stesse grandi Case giapponesi e gli stessi Team impegnati nel Motomondiale, in primis in MotoGP? Oggi ci si scandalizza per i contratti milionari (in euro, dei vari Rossi, Marquez, Lorenzo ecc.). Nel 1979 Niky Lauda, passato dalla Ferrari alla Brabham motorizzata Alfa Romeo, si mette in tasca 3 miliardi di vecchie lire oltre una montagna di benefits. Chi li tirò fuori? Parmalat e Marlboro. Mecenati? No, semplicemente investitori: pago dieci per avere almeno cento. Nel 1980, in F 1, un solo minuto di inquadratura del marchio in tv valeva 500 milioni di lire come ritorno pubblicitario.

Valentino Rossi

Oggi in MotoGP vale 10 volte tanto. Una vittoria di Rossi in MotoGP porta ogni volta oltre 10 mila testate di quotidiani e settimanali nel mondo a pubblicare servizi con i “suoi” marchi-sponsor. E’ in base al grado di capacità di produrre pubblicità a favore dello sponsor che si soppesa il valore economico della sponsorizzazione. La sponsorizzazione non è un atto di mecenatismo ma una operazione economica di natura commerciale e più specificatamente un investimento pubblicitario e di immagine. Oggi con i nuovi medi e le nuove tecnologie della comunicazione tutto questo è moltiplicato. Chiaro? Uno sport globale e professionistico come è oggi il motociclismo richiede grandi investimenti che si trovano solo grazie alla pubblicità, cioè agli sponsor. Non si possono spendere milioni e milioni di euro (o dollari) per semplice passione sportiva.

First-placed Movistar Yamaha MotoGP's Italian rider Valentino Rossi celebrates on the podium after winning the MotoGP race of the Catalunya Grand Prix at the Montmelo racetrack near Barcelona on June 5, 2016. / AFP / JOSEP LAGO        (Photo credit should read JOSEP LAGO/AFP/Getty Images)

Chi l’ha fatto ha portato le aziende al fallimento. E gli sport che non si sono adeguati sono via via scaduti al rango di sport “minori”, di fatto quasi scomparsi. Ripetiamo: tra sport puro, sport spettacolo e spettacolo puro, il grande pubblico vuole lo sport-spettacolo. Lo sport puro senza show non piace né al campione né allo spettatore. Uno sport senza pubblico (in circuito e davanti alla tv) finisce per diventare solo un esercizio che può essere considerato quale pratica personale dello sport. Ecco. Qui siamo. Ma – si dirà – allora tutto ruota attorno ai soldi? Non spetta a questo semplice post dare risposte. Diciamo solo che, ci pare, così – lasciando tutto al libero gioco del “mercato” – il punto di “rottura” non è lontano. L’equilibrio fra investimento economico e ritorno di immagine è precario e regge – nel nostro caso – su chi segue le corse. Se per qualsiasi motivo (l’abbandono di Rossi?) si determina una caduta di appeal e la gente non va più in circuito e spegne la tv, il giocattolo si rompe e buonanotte ai suonatori.

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