Home Bruno Ruffo, il mito che portò l’iride alle “aquile” di Mandello

Bruno Ruffo, il mito che portò l’iride alle “aquile” di Mandello

Volavano già alte, anche prima della parentesi bellica, le “aquile” di Mandello nei cieli delle grandi corse internazionali, portate in pista da straordinari centauri quali Stanley Woods, Omobono Tenni, ecc. Ma, nel 1949, è stato Bruno Ruffo a conquistare per la grande Casa lariana la prima stella iridata (classe 250) nel firmamento del campionato del

Volavano già alte, anche prima della parentesi bellica, le “aquile” di Mandello nei cieli delle grandi corse internazionali, portate in pista da straordinari centauri quali Stanley Woods, Omobono Tenni, ecc.

Ma, nel 1949, è stato Bruno Ruffo a conquistare per la grande Casa lariana la prima stella iridata (classe 250) nel firmamento del campionato del Mondo. Ruffo coglierà l’iride altre due volte: nel 1950 con la Mondial 125 (in uno squadrone con Ubbiali, Pagani, Leoni) e l’anno successivo, di nuovo con la Guzzi 250.

La Moto Guzzi (3329 vittorie, 14 titoli mondiali, 11 vittorie al Tourist Trophy) non è certo stata una meteora, con i suoi 36 anni in pista ufficialmente da protagonista assoluta. Ma il vuoto lasciato con l’abbandono del 1957 ha privato il motociclismo della Casa italiana più significativa per sforzo e organizzazione sportiva e per le intuizioni e realizzazioni tecnologiche culminate con un capolavoro inarrivabile, la 500 GP 4 tempi 8 cilindri. Senza la Guzzi le corse sono state un’altra cosa.

Neppure Bruno Ruffo, con i suoi tre titoli mondiali, (il quarto perso per “guigne”), i suoi caschi tricolori, i suoi 61 record mondiali di velocità, le sue 57 vittorie assolute, non può essere certo considerato un pilota di “passaggio”.

Ma anche per il centauro veronese – nato 90 anni fa il 9 dicembre 1920 a Colognola ai Colli e scomparso il 10 febbraio 2007 – vale quanto detto per la Moto Guzzi: in questo caso l’amarezza per la sfortuna che più volte ha frenato il volo altissimo di Bruno, costretto anzitempo a dare l’addio al motociclismo nel 1953, a soli 33 anni, dopo un grave incidente in prova, tradito dalla nebbia del TT all’isola di Man.

L’Italia è un Paese double-face, capace di creare campioni e miti per poi farli cadere nell’oblio. Oggi, in paesi come l’Inghilterra, dove il motociclismo non è solo una moda, ma un riferimento “culturale” permanente, un pilota come Bruno Ruffo non sta solo nelle pagine sbiadite dei ricordi.

Da noi non è così, anche perché la pur apprezzabile “passione” per le corse dei tempi andati viene per lo più trasformata in “vintage” e bolidi del passato di straordinario lignaggio vengono portati in passerella per dare sfogo ad esibizionismi personali che non aiutano certo a “capire” il valore unico, da opere d’arte, di certe moto da competizione, né tanto meno quello dei fuoriclasse, artisti inimitabili, che su quei bolidi avevano firmato pagine di gloria.

Bruno Ruffo
Bruno Ruffo
Bruno Ruffo
Bruno Ruffo

Tant’è. Almeno Ruffo si è … “guadagnato”, postumo, un significativo monumento nel centro della stupenda Verona e, nel 2003, è stato insignito dal presidente Ciampi del titolo di Commendatore della Repubblica. E non è poco, per un centauro, seppur di rango. Ma invece è troppo poco.

Perché il veronese fa parte della elite di grandi piloti che hanno fatto rinascere il motociclismo del dopoguerra, tassello importante della ricostruzione di un Paese distrutto materialmente e moralmente.

Il motociclismo odierno di Valentino Rossi è la proiezione, riveduta e corretta, delle corse di quegli anni.

E’ anche con l’emulazione di Bruno Ruffo, Dario Ambrosini, Gianni Leoni, Nello Pagani, Umberto Masetti della fine degli anni ‘40, che tanti italiani si sono rimboccati le maniche, spinti dall’impegno, dal sacrificio, dal coraggio, dall’audacia dei loro campioni beniamini, rappresentanti di una rinascita possibile, capaci di dimostrare con i fatti che i sogni per una Italia nuova e vincente erano possibili.

Ecco, Bruno Ruffo, pilota che per primo vince il titolo di campione del mondo della 250, la classe più “bella”, questo soprattutto rappresenta: un italiano che si è fatto da solo, che da ragazzino ruba una prima moto dall’officina paterna per le prime scorrerie, quando a 17 anni, fatica su fatica e lira su lira, con una vecchia Miller 250 debutta a Montagnana, e poi costretto all’attesa per la lunga parentesi bellica, l’Armir, il fronte russo.

Il 14 ottobre 1945 il ritorno vincente in pista a Mantova sul circuito del Te, poi si ripete a Pesaro con quella “Albatros” privata che però costava come tre appartamenti e a fine anno porta a casa il titolo tricolore della seconda categoria. Quindi, dopo un 1946 e un 1947 da privato, l’exploit trionfale al GP delle Nazioni di Monza (circuito di Faenza) nel 1948, primo davanti alle due Benelli Casa e al plotone delle Guzzi ufficiali. Quello fu il lasciapassare per l’ingresso a Mandello dal portone principale in qualità di pilota ufficiale della Casa motociclistica più importante e più forte dell’epoca.

E il pilota veronese ricambiò con grandi corse, grandi vittorie, grande attaccamento al vessillo dell’aquila. Ruffo iniziò e chiuse la carriera in moto con la Moto Guzzi (la parentesi iridata del 1950 con la Mondial fu causata dall’assenza momentanea della Casa del Lario nella 250), una dimostrazione di “noblesse oblige”, di un pilota che prima di essere un campione in pista, era un gentleman ante litteram, rispettato e ben voluto da tutti, avversari compresi.

Un fuoriclasse di raffinata sensibilità tecnica, di grande affabilità (tre cadute in tutta la carriera), di forte temperamento agonistico, di lucida capacità tattica, freddo calcolatore per passare primo sotto la bandiera a scacchi, ma con la baionetta in canna, capace di gettare il cuore sull’asfalto per limare un decimo di secondo al cronometro. Ruffo è stato il più grande stilista della 250 di tutti i tempi, insieme a Tarquinio Provini e a Max Biaggi.

Ad unire con un filo unico l’uomo e il pilota, era la “classe”: una qualità naturale coltivata nell’umiltà dell’impegno quotidiano e del rispetto degli altri, oltre che di se stesso. “Quando do una stretta di mano – diceva – non faccio marcia indietro”.

E quando correva per una Casa come la Guzzi, ne rispettava gli ordini di scuderia, senza recriminazioni. Anche quando ciò comportava amarezza per dover chiudere il gas e dare strada e vittoria a un compagno di squadra. E’ così che perse corse importanti come il Tourist Trophy del 1952 a favore dell’inglese Andersson. Ma è anche così che si entra nella storia.

Si deve alla fatica del figlio Renzo, al suo stupendo libro “Cuore e asfalto” (Bloom Editore) se Bruno Ruffo appare per quello che è stato: una delle stelle del motociclismo mondiale, un costruttore del motociclismo amato dagli aficionados di ogni accento e bandiera, un campione che ha onorato l’Italia, un uomo capace di stare in mezzo agli altri, cosciente, con l’espletamento della sua passione sportiva, di avere fatto “solo” il proprio dovere.

Cuore e asfalto”, (sito www.cuoreasfalto.com) 240 pagine, è un’opera sui generis: non ripercorre semplicemente le tappe di una fulgida carriera, ma tratteggia con dosate pennellate fra prosa e poesia un percorso agonistico e umano estremamente significativo e attuale.

Nella prefazione al volume Renzo Ruffo usa magistralmente la penna come il padre Bruno, il gas: “Una lettura di flash veloci, come veloce è Bruno Ruffo, un viaggio onirico su piste di un tempo senza tempo dove la poesia corre libera e la passione vince sempre”.

Le mirabili fotografie, molte inedite, e la grafica accattivante, rendono il libro dell’appassionato e amico Renzo Ruffo, un’opera coinvolgente, raffinata e di pregio che non può mancare negli scaffali di chi segue e ama il motociclismo, fuori dal tempo.

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