Addio Nicky! Il motociclismo nel tunnel di una delle sue stagioni più luttuose
2017 fra le stagioni più “nere” del motociclismo?
La morte di Nicky Hayden ha destato grande costernazione e ha avuto grande eco, anche fuori del motociclismo, sia per la notorietà dell’asso statunitense già iridato MotoGP, sia perché conseguenza di un incidente non in pista ma su strada, in bicicletta. E’ la dimostrazione, l’ennesima, della caducità dell’esistenza umana – di chiunque – e di come la dea bendata colpisca come e quando vuole senza chiedere permesso. Fatto sta che il motociclismo paga pegno, pesantemente, con sei morti negli ultimi tre mesi e con numerosi incidenti in circuito con conseguenze anche molto pesanti.
La triste serie si apre il 19 febbraio 2017 con la morte in circuito del 31enne Stefano Togni, prosegue il 9 marzo con la morte a Nogarò del 34enne Antony Delhalle, poi pochi giorni dopo a Le Mans con quella del 27enne Adrien Protat, quindi il primo aprile a Donington tocca a Mick Whalley in una carambola che poteva avere conseguenze ben peggiori, ancora il 25 aprile la scomparsa in Irlanda del 38enne Dario Cecconi.
E proprio ieri l’incidente di Misano con il pilota gentleman 48nne di origine svizzera in fin di vita all’ospedale Bufalini di Cesena dove da sabato è ricoverato in condizioni gravi il 21enne pilota romano Simone Mazzola dopo una brutta caduta nel CIV. A parte quello di Hayden, tutti gli altri sono incidenti accaduti in circuito, gara o prova fa lo stesso.
C’è da aggiungere che, tant’è sembri il contrario, finora è … “andata bene” così, viste le tante cadute nel Motomondiale (specie in Moto3), nel Wsbk, nel Cev, nel Civ e negli altri campionati nazionali e in quelli “minori”. Però sei lutti in soli tre mesi e siamo ancora a maggio non lasciano presagire una bella stagione che a fine 2017 lascerà un conto salato.
Paradossalmente l’incidente non è l’eccezione perché le corse di moto restano uno sport ad alto rischio. Caso mai, grazie ai grandi passi avanti fatti in tema di sicurezza, rispetto al passato, oggi le conseguenze delle cadute sono meno devastanti e la caduta mortale è una eccezione, anche se non eliminabile. L’abbiamo ripetuto tante volte: il motociclismo è sempre stato e resta sport del rischio, componente ineliminabile e essenza del proprio essere. I lutti, nel motociclismo, vengono “metabolizzati” in gran fretta perché, oggi come ieri, l’incidente mortale in gara non solo rilancia le polemiche sulla sicurezza dei circuiti ma rimette in discussione le corse stesse.
Al di là del cordoglio – non disgiunto dalla retorica – i morti si dimenticano in fretta: chi ricorda – un esempio fra i tanti – l’incidente nella Superstock 1000 a Laguna Seca che ha causato la morte del 35enne Bernat Martinez e del 27enne Daniel Rivas Fernandez? Il motociclismo ha vissuto altri periodi di grandi lutti.
Limitandoci al dopoguerra il 1951 è stato il primo anno terribile. Sul circuito di Ferrara, in un groviglio di fuoco, perivano Raffaele Alberti e Guido Leoni e altri piloti rimanevano feriti. Sulla fettuccia di Terracina, in un tentativo di record, moriva Renato Magi. A metà luglio, nello stesso giorno, perivano Dario Ambrosini ad Albi (Francia) e Claudio Mastellari a Schotten (Germania). Altre due vittime a Clady in Irlanda: Gianni Leoni e Sante Geminiani. A fine stagione a Monza toccava a Luigi Alberti. Tanti i feriti, alcuni gravissimi. Dagli anni ’60 ai primi anni ’70 una lista infinita di incidenti con feriti e morti, specie al TT dell’Isola di Man: oltre a Tom Phillis e a Bob Mc Intyre, due nomi su tutti, quelli di Gilberto Parlotti e di Santiago Herrero, per non parlare del gravissimo incidente di Tarquinio Provini.
Nel 1975 – non ancora rimarginate le ferite precedenti – il motociclismo tornava sulle prime pagine per i lutti e per gli incidenti. Dopo una caduta a Imola moriva il romano (di Colleferro) Tommaso Piccirilli coinvolto in una carambola con il ferrarese Vinicio Salmi, salvo per miracolo, dopo mesi di ospedale e l’addio alle corse. A Misano perdeva la vita lo spezzino Luciano Rossi. A fine luglio moriva al Mugello il veneto Carlo Fiorentino. Quindi a Civitanova toccava al parmense Giuseppe Lunardi. Questi gli italiani, tralasciando i numerosi feriti. Fra gli stranieri, perdevano la vita al TT gli inglesi Phil Gurney e Peter Mc Kinles. Al Bol Dor moriva il giapponese della Honda Morio Sumirava. Fra gli infortunati della stagione, più o meno gravi, ricordiamo: Gianfranco Bonera, Barry Sheene, Teuvo Lansivuori, Otello Buscherini, Walter Villa, Paolo Pileri, Pier Paolo Bianchi, Johnny Cecotto, Phil Read ecc.
E due anni prima, nel 1973, la immane tragedia di Monza con Pasolini e Saarinen e poi 15 giorni dopo, sempre nel curvone della pista brianzola, la morte di Carlo Chionio, Renzo Colombini, Renato Galtrucco. Nel 1974, ad Abbazia moriva Billie Nelson e l’anno successivo al 1975, cioè il 1976, (16 maggio Mugello GP Italia) morivano Otello Buscherini e Paolo Tordi; nel 1977 (3 aprile Imola 200 Miglia) Pat Evans (Yamaha), (1 maggio Salzburgring) Hans Stadelmann (Yamaha), (18 giugno Ryeka) Giovanni Ziggiotto (Harley Davidson). E le tante morti “assurde” come quelle di Libero Liberati nel 1957 e di Doriano Romboni nel 2013? Ci fermiamo qui.
Ribadiamo quanto già scritto su Motoblog: “Eliminare completamente i pericoli delle corse è impossibile perché c’è l’imponderabile legato all’errore umano, al fato sfavorevole, ai marchingegni elettronici a volte in tilt. Chi rischia sono i piloti che non contano (quasi) nulla in tema di sicurezza anche perché non sono mai stati in grado di esprimersi con un livello minimo di unità, quindi di credibilità: ognuno pensa a se stesso, al proprio tornaconto. Dare ad ex piloti i galloni di consulenti sulla sicurezza è spesso un modo per mettersi la coscienza a posto, quando non addirittura strumentalizzarli, dicendo di cambiare tutto per non cambiare niente. Ci ripetiamo: le corse non sono una corrida, i piloti non sono gladiatori, i mezzi non sono strumenti offensivi. Ma occorre equilibrio: la ricerca della massima sicurezza possibile non può portare allo snaturamento delle competizioni motoristiche, che erano, sono e resteranno “rischiose”.
Resta il monito perenne di Enzo Ferrari: “O si smette di piangere o si smette di correre”.