Home La morte di Paul Shoesmith e il caro prezzo del Tourist Trophy

La morte di Paul Shoesmith e il caro prezzo del Tourist Trophy

La vita di Paul Shoesmith è solo l’ultimo tributo di sangue pagato per tenere in vita in motociclismo romantico che ormai non esiste quasi più. Ne vale la pena? Cerchiamo di capire.

La foto che vedete in apertura ritrae Paul Shoesmith, mentre rientrando nel suo box festeggia assieme alcuni a piccoli tifosi che lo incitano. Paul è deceduto sabato scorso, a causa di un incidente occorsogli mentre sfrecciava con la sua S1000RR sul Mountain Course durante le prove del Tourist Trophy. Come riportato da RoadRacingCore, la perdita del controllo della sua BMW su uno dei punti più veloci del TT, il rettifilo del Sulby, gli è stata fatale: personaggio iconico e ormai presenza fissa al Tourist Trophy, Shoesmith lascia la moglie e i due figli, suoi fedeli accompagnatori in ogni trasferta.

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Tuta con le frange, una silhouette non proprio da pilota, moto dalla livrea vistosa che difficilmente passavano inosservate: “Shoey” era un pilota-manager, in quanto gestiva egli stesso il team ICE Valley, ultimamente funestato da numerosi gravi incidenti prima che il destino decidesse di portarsi via anche lui. Paul aveva esordito sull’Isola di Man nell’ormai lontano 2005, e nel 2011 all’età di 45 anni era riuscito a conquistare il 15° posto nella classe più prestigiosa dell’evento, la Senior. Ironia della sorte, proprio sabato era riuscito a segnare il suo best lap di sempre sfiorando le 126 mph di media.

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Paul è l’ennesima vittima di questa gara quasi maledetta, dal fascino mortale e irresistibile: un morto al TT non fa quasi più notizia, visto l’impressionante elenco di piloti che nei 109 anni di corse sullo Snaefell hanno perso la vita inseguendo il sogno di andare più veloci del vento. L’ultimo, prima di Shoesmith, il sidecarista Dwight Beare, perito appena qualche giorno fa. La domanda, ogni volta che accade, è sempre la stessa, drammaticamente irrisolta: tutto questo ha senso? Ne vale davvero la pena?

Non saremo noi a dare una risposta. Non cercheremo nemmeno di farlo, perchè non è possibile e ci arrogheremmo il diritto di giudicare le scelte altrui. Ma possiamo cercare di comprendere il perchè di queste scelte apparentemente folli: se chiedessimo a uno dei veterani che ormai da vent’anni si presentano al via del TT (uno su tutti, il leggendario John McGuinness) di rispondere a questa domanda, ci sentiremmo con tutta probabilità rispondere “Certo che ha senso, altrimenti non sarei qui”.

Eppure questi vecchi guerrieri, di compagni che non sono tornati ai box dopo esserci lanciati a 300 all’ora tra i muretti di Ramsey, ne hanno visti tanti: cosa spinge un pilota a continuare, quando avrebbe tutte le motivazioni per sentirsi un fortunato sopravvissuto, graziato dalla Nera Signora? Cosa porta una persona a mettere sul piatto della bilancia ciò che un essere umano ha di più caro -la vita stessa- pur di vivere un’emozione, una scarica di adrenalina?

Può sembrare assurdo, ma è la voglia di vivere, se per “vivere” si intende “vivere appieno”.

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Se a uno di loro, a uno di quelli che ogni anno si presenta sulla linea di partenza di Glencrutchery Road per lanciarsi a capofitto nelle spire dello Snaefell, togliessimo la possibilità di sfrecciare a perdifiato tra le case dell’Isola di Man, probabilmente gli porteremmo via una parte della sua identità, un pezzo di vita.

La razionalità ci dice che no, tutto questo “Non ha senso”, ma per cercare di capire, senza avere la pretesa di giudicare, bisogna partire dal presupposto che nessuno di coloro che fa questa scelta è un pazzo, un folle, o ancora più sbagliato, qualcuno che disprezza il valore della vita umana. Perchè nonostante la Grande Mietitrice faccia fin troppe volte visita nel paddock del TT e sia ormai un’ospite consueta, quello che si respira tra i box di Douglas nei giorni della corsa non è un funereo clima di morte, ma un’aria traboccante di vita e passione.

È forse proprio il rischio, la consapevolezza che si è tutti nella stessa barca, sul filo di un rasoio alla mercè del Fato, ad aver permesso che proprio nelle Road Races si siano conservati i valori più alti del motociclismo e dello sport in generale: la lealtà, la solidarietà, il senso di essere tutti una grande famiglia, la voglia di aiutarsi a vicenda anche se poi in pista si è uno contro l’altro. Tutto ciò, nello showbiz patinato dei campionati mondiali è andato perdendosi nel corso dei decenni, con l’arrivo delle mega-hospitality, degli ingaggi multimilionari, degli sponsor a 6 zeri.

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Non vogliamo parlare di meglio o peggio, il nostro non è e non vuole essere un giudizio di valore: è una constatazione, crediamo, condivisibile. Non intendiamo rimpiangere i bei tempi andati a tutti i costi, tantomeno glorificando il rischio costante proprio di quegli anni in cui sopravvivere a una gara di moto era già un buon risultato (“Monza ‘58? Gran bella gara, non è morto nessuno”, tanto per citare un’eloquente dichiarazione attribuita a Juan Manuel Fangio).

Non è questione di nostalgia del pericolo e dei piloti-eroi che si giocavano quotidianamente la vita sulle piste: affrontare la faccenda in questi termini sarebbe limitante e sbagliatissimo, anche perchè il recente incidente di Luis Salom ci insegna che correre in moto può diventare qualcosa di fatale anche nell’epoca delle Safety Commission e della (sacrosanta) ricerca spasmodica della sicurezza. Tuttavia, cercare di capire e seguire una logica legata ad una visione romantica del motociclismo e del motorsport ci permette di comprendere, anche se magari non di condividere, le ragioni di una scelta -quella dei piloti delle road races- che altrimenti apparirebbe folle e suicida, quando non addirittura poco rispettosa per la vita umana.

Quella del TT è una scelta “di vita”, non una scelta “di morte”: è la scelta di fare ciò che ci rende vivi e felici di vivere, che in qualche caso può anche contemplare la possibilità di rischiare la vita stessa. Per questo pensiamo che, nonostante in momenti come questo ci possa sembrare una cosa al limite della follia, bisogni rispettare la decisione di chi all’Isola di Man ci va per correre a 300 all’ora: ognuno di noi è il solo ad essere consapevole di ciò che lo fa sentire vivo per davvero.

Che la terra ti sia lieve, Shoey.

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