Home Angelo Bergamonti, 40 anni fa la morte nel diluvio di Riccione. Fu la fine di un’epoca

Angelo Bergamonti, 40 anni fa la morte nel diluvio di Riccione. Fu la fine di un’epoca

Il 28 marzo 1971 Amedeo Ronci, patron del circuito “Perla verde dell’Adriatico”, decide di posticipare la corsa internazionale di una settimana. L’imperversare del maltempo rende impraticabile il tracciato del lungomare. Il “Circus” si gode così una pausa al sole, tornato a splendere sin dal lunedì. Ma il destino non fa sconti e non cancella l’appuntamento

Il 28 marzo 1971 Amedeo Ronci, patron del circuito “Perla verde dell’Adriatico”, decide di posticipare la corsa internazionale di una settimana. L’imperversare del maltempo rende impraticabile il tracciato del lungomare. Il “Circus” si gode così una pausa al sole, tornato a splendere sin dal lunedì. Ma il destino non fa sconti e non cancella l’appuntamento con il fatidico giorno. Sono passati 40 anni da quel tragico 4 aprile 1971 quando, tornata la stessa cornice invernale della settimana precedente, nella corsa delle 350, sotto il diluvio, cadde e perse la vita Angelo Bergamonti, 32enne di Gussola (CR), pilota ufficiale della MV Agusta, compagno di squadra di Giacomo Agostini.

Il cartello pubblicitario: “Un pieno di sole a Riccione”, oramai sapeva di beffa. Sin dal mattino del 4 aprile una pioggia fittissima copriva di nuovo la riviera e un vero e proprio nubifragio si abbatteva alla partenza della trecentocinquanta. Bergamonti avviò male la sua tre cilindri, rimanendo nell’imbuto del gruppo e lasciando via libera al suo caposquadra. Si correva dentro una nube d’acqua, con pozzanghere e spruzzi ovunque, con le moto ridotte a mezzi anfibi. Quella di Bergamonti è subito una corsa al calor bianco che infiamma i 40 mila presenti: una straordinaria rimonta, fin quasi all’aggancio del battistrada Agostini.

Alla fine del settimo giro, sul rettifilo che porta alla rotonda del traguardo, Angelo allunga ancora la staccata e la moto s’intraversa violenta, innestando la fatale parabola. Il bolide rosso grigio si impunta, impennandosi, e sbalza di sella il pilota: moto e uomo, come saponette impazzite, strisciano per un centinaio di metri sul lago d’asfalto. Alla fine, la tre cilindri si schianta nelle balle della “rotonda” e il pilota termina la corsa con uno scarto conclusivo sul cordolo di destra, a ridosso del pubblico attonito. La corsa non viene fermata.

Trasportato prima all’ospedale di Riccione, poi, per le condizioni disperate, al Bellaria di Bologna, Bergamonti spirava alle 23,45. Quella tragica gara scatenò l’inferno dei “benpensanti” contro il motociclismo, una vera e propria caccia alle streghe, con inchieste e accuse di ogni tipo e portò il Governo ad abolire con un decreto legge le corse sui circuiti cittadini, chiudendo così un’epoca ultradecennale, fra gloria e tragedia.

Bergamonti era stato ingaggiato dalla MV Agusta pochi mesi prima, al termine della stagione 1970: due secondi posti nella 350 e 500 dietro ad Agostini al debutto del GP di Monza e poi una perentoria doppietta al Montjuich (assente Agostini impegnato a Caldwell Park) che innescò polemiche e interrogativi. Dopo la corsa spagnola, nel successivo confronto diretto sulle serpentine di Ospedaletti, Agostini ristabilì le distanze fra i due.

Ecco perché, dopo un inverno non privo di battibecchi fra i due “galletti” della MV, si arrivò all’apertura della nuova stagione con l’aria già surriscaldata. Agostini era all’apice della sua carriera, aveva appena vinto il suo decimo titolo iridato. Bergamonti aveva invece “faticato” a toccare la vetta, una lunga corvée da privato, approdando tardi sui bolidi di Cascina Costa.

Aveva iniziato, nel 1957, in modo rocambolesco, la carriera del corridore: tre gare e tre cadute con fratture varie. Pilota di grande temperamento, da mischia, stile muscolare, gran staccatore, temibilissimo nel veloce e sul bagnato, eclettico, valente tecnico, capace di mettere a punto qualsiasi motore e di guidare qualsiasi moto di ogni cilindrata, 2 o 4 tempi, monocilindriche o plurifrazionate.

Fece mirabilie in sella alle Aermacchi 125 (Aletta 2 t) e 250, 350 e 500 – 410 cc – (Ala D’Oro mono 4 t), alla Paton 500 (bicilindriche 4 t), alla Morini 250 bialbero (1967) con cui però incappò in una grave caduta in Spagna, con rischio della vita. Ma la forte fibra e la grande passione di correre e di emergere lo riportò presto in sella, fra i protagonisti, tanto da guadagnarsi poi l’agognata chiamata della MV Agusta.

Tre titoli italiani (125, 250, 500), molti successi (tra cui 4 GP iridati), innumerevoli piazzamenti, diversi incidenti: una carriera importante, troncata nel momento migliore dalla sciabolata inappellabile della dea bendata. Angiulein pagava così con la vita il conto più tremendo alla sua indomita passione per le corse.

Chi scrive, lo ricorda come un ragazzo sereno, dal sorriso aperto, umile ma non modesto, conscio del proprio valore in pista. Pilota preparato, sempre indaffarato e scrupoloso nella messa a punto del mezzo, mai arrogante mai sconsolato sempre pronto a dare una mano a chi gli chiedeva una candela, una chiave, un consiglio.

Rispettava tutti, non solo Agostini, di cui nutriva amicizia e forte considerazione. Si scrisse che morì per inseguire Agostini. Angelo non voleva emulare nessuno. Voleva appagare il suo desiderio di competere, mettere le ali al suo sogno di passare veloce sotto la bandiera a scacchi. Prima di tutti gli altri. Anche davanti a se stesso.

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