Home Morti in pista, basta scoop e lacrime di coccodrillo! Il nodo è uno: chi decide?

Morti in pista, basta scoop e lacrime di coccodrillo! Il nodo è uno: chi decide?

La tragedia di Mosca costata la vita al giovane pilota Andrea Antonelli dimostra che anche nelle corse l’esigenza di riflessione avviene sempre dopo il “fatto”, specie se, come in questo caso, tragico e mortale.

Poi si scatenano l’io l’avevo detto, il dito puntato contro questo o quello, la ricerca del capro espiatorio. E domina il lato emotivo e passionale a scapito di una analisi che richiede freddezza, lucidità, razionalità al limite del distacco e coraggio.

Anche stavolta spunta il cinismo di un certo giornalismo straccione che specula persino sulla morte di un pilota 25enne per tentare lo scoop: gente e media che scoprono il motociclismo esclusivamente in questi momenti luttuosi, una nidiata di censori improvvisati e di comodo che d’improvviso scoprono i rischi e i pericoli del motociclismo, come se prima non fossero esistiti.

Gli incidenti, i piloti feriti anche gravemente e addirittura periti in oltre 100 anni di corse (il motomondiale nasce nel 1949 ma le prime gare si svolgono nel 1904) si contano a migliaia e come scriveva il compianto grande giornalista ed esperto Ezio Pirazzini: “L’olocausto era nato col nascere stesso delle competizioni, la tragica catena non si spezzava mai ma si allungava”. Insistiamo su questo non per accettare con fatalità quel che avviene convinti che per la sicurezza ci vuole la coralità dell’impegno permanente adeguando poi le norme su tutti i circuiti.

Sempre da Pirazzini: “Se proprio non si volevano incidenti mortali, l’unica soluzione resta quella di smettere, altrimenti il resto era e resta panacea, giusta fin che si vuole, ma sicuramente non tale da eliminare totalmente le probabilità del rischio”. Appunto, come ammoniva Enzo Ferrari: “O si smette di piangere o si smette di correre”.

Il nuovo e modernissimo circuito di Mosca aveva ottenuto l’omologazione per gare mondiali? Certo che sì, e anche in condizione di bagnato quando scattano norme precise. Allora attribuire le colpe agli organizzatori – considerati sempre superficiali e incapaci, quasi delittuosamente portati a “volere” certe catastrofi – non sono altro che infamanti accuse, senza prove. Perché qui si va ben oltre lo sport e si entra a piè pari nella giurisdizione penale dove a intervenire non è più il chiacchiericcio da bar o l’articolista che non ha mai visto una nuba d’acqua in una corsa ma il fascicolo di un tribunale.

Come già ieri con il povero Antonelli e prima con il povero Simoncelli e prima ancora con altri cento e cento piloti periti, si scatenano ire represse, che infieriscono e speculano sul dolore vero di famigliari, parenti, amici e veri appassionati.

I piloti rischiano e vanno ascoltati, il loro parere deve contare di più ma non può essere decisivo, anche perché difficilmente esprimono una posizione unitaria e anche sulla sicurezza si dividono. fa male dirlo ma è sempre stato così ed è così. Melandri e altri piloti fanno bene a dire la loro (ma perché Marco non ha dato lui per primo l’esempio fermandosi nella SBK allagata e buttando al vento la sua vittoria?) ma i piloti – va ribadito – non sono super partes e ragionano a seconda dei loro singoli interessi agonistici (punti per la gara, classifica di campionato, ingaggi, ecc). di quelli delle loro Case e Team, dei loro sponsor e così via. Per anni i piloti invocarono i guard-rail a bordo pista, poi gli stessi – visti i risultati delle lame taglienti – ne chiesero (tardivamente) l’abolizione.

Lanciare il sasso e accusare è facile (ovvio che non ci riferiamo ai piloti) incriminando uno sport complesso e difficile da governare, oggi incentrato (anche esageratamente) sullo show-business piuttosto che sulla passione, su un concetto nazionale e industriale, come in passato. Abbiamo visto ancora una volta come piloti (Lorenzo e Pedrosa ecc.) pur fratturati vogliono rientrare in corsa: non è solo per business o incoscienza. Spesso neppure i corridori sanno spiegare questa loro morbosità. Ed è forse questo mistero l’autentica forza delle corse: “Una fede, più che uno sport”.

Nel motociclismo l’evoluzione tecnica e tecnologica, l’esigenza di un rapporto equilibrato fra sicurezza e spettacolo, hanno richiesto continue evoluzioni, quando non proprie e vere rivoluzioni, rispetto alle moto, ai circuiti, ai regolamenti e a tutto quel complesso e delicato “meccanismo” che permette a questo sport di vivere e svilupparsi. C’è una base di partenza da cui non si può prescindere.

Primo: il rischio è una componente non eliminabile delle corse. Secondo: si corre per andare più veloci, per abbassare il tempo sul giro, per vincere, per cui lo sviluppo tecnologico è condizione essenziale. Terzo: lo spettacolo è parte essenziale delle corse. Quarto: senza grande spettacolo non c’è grande pubblico (sui circuiti e in tv); senza grande pubblico non ci sono grandi sponsor e Case costruttrici in grado di fare investimenti adeguati; senza Case e Sponsor questo sport avrebbe i giorni contati, condannato a una profonda involuzione – anche sulla sicurezza – e ad estinguersi. E, dello spettacolo, ne sono parte centrale il rischio, la velocità, lo sviluppo tecnologico. Il tutto con al “centro” il pilota.

Ora si è già scritto sui molti modi per ridurre il rischio e aumentare la sicurezza. E’ chiaro che più si va piano e meno si rischia e non è, ad esempio, che tornando a dare il “controllo” completo del mezzo meccanico al pilota, il rischio diminuisce, anche se l’elettronica deve essere calmierata. Oggi, pur con molti limiti, il livello di sicurezza raggiunto nel motociclismo è il più elevato dagli inizi (1949) del motomondiale. Il merito maggiore va ai circuiti (eliminazione dei micidiali guard rail e adeguate vie di fuga) anche se, occorre dirlo, a danno dello spettacolo (a parte rare eccezioni, oggi i circuiti sono disegnati dai computer, senza personalità, sostanzialmente da “go kart”, più “facili da riprendere con le telecamere tv, con tempi sul giro molto più lenti di quelli degli … anni 70) e della “partecipazione”, con il pubblico allontanato dal nastro d’asfalto e costretto dietro a reti doppie o triple. Tant’è.

Sulla sicurezza oggi non è il caso di fare rivoluzioni, a meno di voler tornare a motori con la metà di potenza, gomme a pera ecc. Servono continui e sostanziosi ritocchi, specie su gomme ed elettronica, sul peso e sull’altezza e larghezza delle moto, e per i circuiti, su asfalti, cordoli, manti erbosi laterali, interventi del personale medico e di servizio ecc. La questione è però un’altra: chi comanda? E chi decide se e come correre in condizioni limite o oltre il limite? In uno sport complesso come il motociclismo non c’è solo un protagonista.

Ogni componente ha interessi di “parte” che legittimamente vuole difendere. Ci riferiamo ai piloti, alle Case costruttrici, alle Aziende della componentistica, ai team, agli sponsor, alle televisioni, agli organizzatori dei singoli Gran premi, a chi gestisce il motomondiale (MotoGP e SBK), cioè la Dorna. Ma le varie componenti non sono sullo stesso piano. Il rischio è che ci sia chi decide (perché proprietario di tutti i diritti) per tutti. Un “padrone” unico che dice di salvaguardare gli interessi generali ma che poi soprattutto fa gli interessi propri. Ecco il punto.

Dov’è finito il soggetto “super partes”, cioè la FIM (federazione moto internazionale)? Sarà ora che anche la nostra FMI (Federazione moto italiana) batta un colpo e non si limiti ai necrologi. E che anche il Coni (in Italia) e la Commissione europea preposta diano un’occhiata. Non si sa mai. Lo sport, quindi anche il motociclismo, deve restare “autonomo” dalla politica. Ma non c’è il rischio che questa autonomia sia un buon pretesto per poter avere carta bianca, senza che nessuno disturbi il “manovratore”? Perché i soldi pubblici (cioè nostri) ci sono anche qui: chi paga gli interventi nei circuiti? Chi sostiene l’industria? Come vengono utilizzati i soldi dalle tasse dei motociclisti? Ecco.

Un’occasione buona, questa del confronto sulla sicurezza, anche per guardare oltre. Magari per gettare finalmente un sasso nello stagno. Per onorare e rispettare Andrea Antonelli e i tanti piloti che ci hanno lasciato.

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